Da oggi,
31 ottobre, Roma è più misera ancora, sempre più poveramente rinchiusa nel
perimetro dei suoi piccoli colli: chiude
il suo Museo Nazionale d'Arte
Orientale 'Giuseppe Tucci' .
Il
Museo è (era) ospitato nelle opulente sale di palazzo Brancaccio, l’ultimo
palazzo nobiliare costruito
a Roma, la cui storia è già un romanzo: voluto dalla ricca dama
newyorkese Mary Elizabeth Bradhurst Field, la cui figliola andava sposa al
principe Salvatore Brancaccio con una dote da un milione di dollari, ed eretto
su disegno del grande architetto Koch, il progettista della Banca d’Italia, di
Palazzo Margherita oggi Ambasciata
americana, dell’Esedra di Piazza della Repubblica, insomma dell’ultimo
fervore costruttivo di una vera capitale, se si esclude il successivo periodo
fascista.
Ma ahimè, questa magnificenza
costava un affitto.
E dunque la lungimiranza
ministeriale ha dapprima deciso che il Museo dovesse perdere la sua autonomia, poi
essere disciolto e inserito nel misterioso
"Museo delle Civiltà", che di altisonante ha solo il pomposo
nome e una sede raccogliticcia, l’Eur lontano da qualunque flusso turistico, e
soprattutto molto più costosa.
Ovviamente,
a questo trasferimento non seguirà alcuna esposizione, poiché per le collezioni, l'archivio
fotografico e la biblioteca non sono ancora disponibili gli spazi.
Eccoci
dunque privati per sempre – dato che non c’è nulla di più definitivo del
provvisorio - di uno dei luoghi di conservazione
viva della memoria di passati e luoghi, e persone e abitudini, e oggetti e preziosi, e vita quotidiana
e ornamenti e culto dei morti del Medio
ed Estremo Oriente .
Un
patrimonio proveniente da decine di
spedizioni dei nostri archeologi, unanimemente riconosciuti come i migliori al
mondo e dunque al mondo tra i più importanti e apprezzati: un patrimonio
infatti non frutto di razzie o bottini
di guerra come nel British a Londra o nel Louvre di Parigi, ma lasciati in
deposito da Paesi come l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq proprio a tutela dei
reperti .
Di
certo, nei magazzini al buio lo saranno ancor più.
Ma
soprattutto il Museo è stato un’autentica gioia degli occhi, e dell’anima, che
poteva rivedere e riconoscere
simboli e figure, e forme e colori di civiltà lontane che ritornavano alla coscienza chissà da
quali profondità, in cui le differenze
culturali non si annullano ma si integrano.Ceramiche invetriate, voli di pavone
su mosaici, gioielli moghul, antichi stupa , Buddha
Shakyamuni e bodhisattva della compassione, i restauri delle persiane Persepoli
e Isfahan, le lavorazioni finemente tessite con fili preziosi e antichissimi da
chissà quali mani, porcellane millenarie turchesi e ocra di Samarcanda...
e il meraviglioso percorso in Tibet e Nepal con lo “psicocosmogramma”
che lega appunto il microcosmo dell’ individuo e l'universo, lo schema dei sei mondi della rinascita:
inferni, spiriti famelici, animali, uomini, titani, divinità mondane.
E' stato
questo il meraviglioso, ultimo dono di
Giuseppe Tucci, il più grande, avventuroso, generoso esploratore del secolo
scorso, maestro di tutti i cercatori di quel mondo che è altro da noi, dal
nostro mondo (uno fra tutti, Fosco Maraini), a cui il Museo era
dedicato, e che al Museo aveva affidato
tutta la sua raccolta dei lunghi anni
avventurosi in Nepal, Tibet e Himalaya.
A questa si
era aggiunto poi il lascito della moglie Francesca, che aveva nominato il Museo
erede universale.
Che pena. Perché dunque tenere, sostenere tutto questo? Forse è meglio così.
Nessuna
“autorità”, né a Roma, né al Ministero,
nonostante l’accorata petizione che a nulla è servita, si è mossa.
Nel degrado
generale che mi pare ci invada, in cui la parola reperto ha il gelo di un
cadavere e non la gioia di un ritorno e di un riconoscimento; nella particolare “grande bruttezza” che
sta invadendo la capitale come una
lebbra, forse un vuoto così è giusto,
adatto, praticamente perfetto .
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